La ballata della cotogna di Istanbul, tra Vienna e Sarajevo

E adesso che cominci la ballata
Seguitela leggeri e soprattutto
Vi prego non chiamatela poesia
Perché il racconto mio su riga breve
È solo l’andatura delle scarpe
Quelle di Max, che ho provato a calzare
Per queste sette leghe d’avventura

È a suon di endecasillabi che Paolo Rumiz racconta una storia d’amore che dall’Austria viaggia in Bosnia, per poi spingersi fino a Istanbul. Due protagonisti “che si amano sapendo della fine già scritta nel destino, come avverte della cotogna la triste canzone”. Lui è Max e viene da Vienna, “Occhi di ghiaccio, ma una voce suadente”. Lei è Maša, che da sempre vive a Sarajevo, “la tartara dai grandi occhi e dai femori lunghi”. Si conoscono dopo che entrambi hanno già vissuto molti anni. Max scopre la bellezza di Maša e non riesce a scordarla. È una donna altera. Ha già avuto un grande amore. Ce ne sarà un secondo.

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“È gialla in Bosnia la neve al mattino
Di un bianco abbacinante a mezzogiorno
E rosa verso sera, se fa bello
Sui monti dalle parti della Drina
Ma quella sera le cime dei monti
Avevan preso con l’ultimo sole
a tinta color miele della Grecia
Per meglio celebrare le magnifiche
Spalle tornite di Maša Dizdarević”.

La famiglia di Maša ha sofferto. È sparsa per tutto il mondo. Solo il vecchio padre vive ancora in Bosnia. Maša ha tre figlie in Russia, avute da un uomo che ha accettato di sposarla pur sapendo che il suo cuore apparteneva ad un altro. Si chiamava Vuk e aveva ucciso una donna quindici anni prima. Lei lo aspetta, e quando viene liberato, torna da lui. Dura poco la loro vita insieme: una granata lo uccide. Quando Max incontra la tartara, trova una vedova con i capelli lunghissimi e sempre vestita di nero. Non importa: i suoi occhi lo conquistano. E, tornato in Austria, non riesce a dimenticare Sarajevo e la sua abitante più bella.

Sarajevo

Sarajevo

A chi ha l’orecchio buono la città
Restituisce secoli di suoni
Il colpo che non sbaglia di Gavrìlo
Il colpo del cecchino col rimbombo
Del mortaio, i blindati che sferragliano
E il crepitare del rogo dei libri
Dentro la Biblioteca nazionale.

Lo può ben dire chi l’ha conosciuta
Era Gerusalemme poca cosa
Rispetto all’armonia di Sarajevo“.

Sarajevo, “che poi non ha caso vuol dir ‘serraglio per le carovane’” incatena Max. Lontano con il corpo, rimane con lo spirito. Ma è Maša ad andare da lui. Tre anni dopo. È malata, e si rivolge all’austriaco per chiedere aiuto.

Max adorava i Balcani per questo
Il loro riconoscersi la pancia
Il fegato, lo stomaco e la bile
Del nostro continente maledetto
Senza pretesa di esserne la mente
Ed era stato di certo anche questo
A farlo innamorare della donna
Dagli occhi di ciliegia sopra il fiume

Sembra che la canzone de “La cotogna di Istanbul” sia una condanna e insieme un’assoluzione. L’ha cantata Maša, mentre Max visitava Sarajevo. D’un tratto una sera, in un locale chiamato Ragusa, si era alzata e aveva iniziato a raccontare una storia musicata. Che parla di amore e di dolore. I due perni attorno a cui ruota anche l’intreccio dei destini della bosniaca e dell’austriaco.

Fu l’amore fra due giovani
Per sei mesi per un anno
Quando chieser di sposarsi
Di sposarsi aman aman
I nemici disser no.

S’ammalò la bella Fatma
Figlia unica di madre
Per guarir mi porterai
Lei gli disse aman aman
La cotogna d’Istanbùl.

La cotogna andò a cercare
Fin laggiù nella metropoli
Ma tre anni fu lontano
Per tre anni aman aman
Per tre anni lui sparì.

Tornò infine con la mela
Ma trovò il suo funerale,
vi darò duecento scudi
e magari anche trecento
se baciare la potrò.

Per tre giorni, e non tre anni, sparisce Max quando Maša si ammala. Era venuta da lui chiedendo aiuto. Viene curata a Vienna e sembra guarire. Inizia la vita insieme dei due e pare felice. Ma dura poco. Il male non è sparito e proprio quando torna allo scoperto Max parte per Istanbul. Promette a Maša di tornare con la Cotogna, quella della canzone che lei ha cantato in un locale chiamato Ragusa anni prima.

“Poté arrivare a Vienna appena in tempo
Con la cotogna in mano per assisere
Al funerale di lei e implorare
Che un attimo i becchini si fermassero
Per consentirgli il bacio dell’addio”.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, giornalista e scrittore. Autore de “La Cotogna di Istanbul”

Istanbul, Vienna e Sarajevo. Un pezzo d’Europa che fa da sfondo a una triste – ma grande – storia d’amore. Max inizia a viaggiare e racconta di Maša a chiunque voglia ascoltarlo. Nessuno riesce a farne a meno. Tutti porgono l’orecchio. Chiunque si commuove e sogna di poter conoscere “la tartara dai grandi occhi e dai femori lunghi”. Max non si ferma. Ma la sua storia lo fa. Nelle pagine di Paolo Rumiz, che lo incontra prima che giunga la morte dell’austriaco, nella stessa città dove è andato a raccogliere la cotogna.

“Sono stato a Bisanzio e non ho dubbi:
è davvero impossibile capire
la Bosnia, le sue valli e le foreste
il suo destino, la sua soggezione
a un potere lontano e imperscrutabile
il suo odore di cuoio e sigarette
l’occhio caucasico delle sue donne
la sua vitalità e la sua tristezza
non puoi capire, se sei forestiero
la pazienza infinita dei suoi vecchi
e il ritmo misterioso del caffè
che va centellinato sul divano

[…]

Non puoi capire nulla dei Balcani
Se non vedi quel lume che ti chiama
Luce dispersa alla fine del mondo
La sola cosa immobile in un traffico
Di navi, pesci, uomini e gabbiani”.

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